San Giobbe

Era “l’uomo più facoltoso di tutti gli Orientali” e possedeva canunelli, buoi, asini e schiavi in grandissima quantità ( 1,3 ). Tutto fa credere che non fosse ebreo, uomo intemerato nei costumi, “retto, timorato di Dio e alieno dal male” (1,1 – 2,3). Ebbe sette figli e tre figlie e nella sua famiglia esercitò funzioni sacerdotali offrendo ogni sette giorni sacrifici per ciascuno dei suoi figli (1,5 – 42,8). Era al colmo della ricchezza e della felicità quando improvvisamente fu colpito da una lunga serie di disgrazie che lo privarono in breve tempo di ogni suo avere e perfino dei figli (1,13-19). Bellissime, pur nella loro lapidaria semplicità, le sue parole di rassegnazione davanti alla perdita delle cose e delle persone più care: “Iahweh ha dato e Iahweh ha tolto: il nome di Iahweh sia benedetto” (1,21).

Colpito da una ributtante malattia che lo riduce tutto una piaga, non perde la sua calma, neppure davanti allo scherno e alla derisione della moglie (2,7-10). Cacciato di casa, è costretto a passare i suoi giorni in mezzo ad un letamaio. Qui lo trovano tre amici che, informati della sua disgrazia, sono accorsi a confortarlo.

A questo punto il libro introduce un lunghissimo dialogo (3-41) che, partendo dal caso concreto del protagonista discute in forma altamente poetica quel grave problema che non ha mai cessato di assillare l’umanità, l’origine cioè del dolore nel mondo, includendo in questa trattazione “gli oggetti più nobili della conoscenza e coscienza umana, quali Dio e l’uomo, la giustizia e l’ingiustizia, la felicità e la sventura, il destino e il senso della vita”.

Gli interlocutori sono Giobbe stesso e i suoi tre amici: Eliphaz il Themanita, Baldad il Suhita e Saphar il Naamatita (2,11); nella seconda parte interviene anche un certo Eliu e infine Dio medesimo che si rivela in una mirabile teofania. Prende per primo la parola Giobbe che, in un monologo sinceramente drammatico, sfoga tutto il suo dolore maledicendo il giorno della sua nascita e chiedendosi, quasi smarrito, perché mai all’uomo viene data la vita, quando poi è condannato ad essere infelice (3). Giobbe ignora che la sua è una prova ostinatamente voluta da Satana e che Dio ha soltanto permessa (1,6-12; 2,1-7). Il problema, quindi, è impostato con molta chiarezza e senza nessuna pregiudiziale, perché egli lo sente angosciosamente come lo sentirebbe qualunque altro, che, pur avendo piena fiducia in Dio, anzi forse proprio per questo, non sa trovare un perché al suo dolore straziante.

La discussione che ne segue risente forse un po’ troppo della simmetria con cui l’autore del libro ha voluto disporre gli interventi dei tre interlocutori, facendo in modo che ad ogni loro discorso (otto in tutto) ne corrisponda un altro del protagonista (altri otto). Ma d’altra parte, questo procedimento non manca di una sua funzione perché permette di far risaltare sempre piu chiaramente nel corso della discussione l’innocenza di Giobbe e la sua santità. Il principio su cui si basano tutti gli interventi dei tre amici è quello della teologia tradizionale dell’antico Israele. Dio è buono e giusto. La rivelazione, la ragione e l’esperienza dimostrano che egli, come premia i buoni ricolmandoli di ogni felicità, cosi punisce i cattivi assoggettandoli al dolore e alle calamità della vita. Applicando questo principio, essi fanno intendere a Giobbe, prima velatamente, ma poi con sempre maggiore asprezza, che alla radice delle sue disgrazie deve essere necessariamente qualche grave peccato, forse un delitto occulto. Non è difficile a Giobbe dimostrare con l’esperienza dei fatti come spesso l’empio è felice mentre il pio è sventurato. Ma risultando inutili le sue argomentazioni, non gli resta che protestare ripetutamente la sua innocenza, implorare la pietà degli amici e appellarsi al giusto giudizio di Dio (4-31 ).

Cosi la via è aperta al quarto interlocutore, Eliu, il quale prospetta una nuova soluzione del problema facendo vedere come il dolore, oltre che punire il peccato, può servire anche a prevenirlo o a purificare l’uomo che se ne è reso colpevole ( 32-37 ). Finalmente dall’alto di una nube Dio stesso fa sentire la sua parola anunonitrice (38-41) e a Giobbe non resta che umiliarsi davanti all’infinita e imperscrutabile sapienza di lui, gettandosi “sulla polvere e sulla cenere” (42,6). I tre amici sono condannati ad offrire un sacrificio di espiazione per il loro ingiusto e crudele comportamento nei riguardi di Giobbe e questi, proclamato innocente, viene restituito alla sua antica felicità nel godimento di beni due volte superiori a quelli che aveva avuto precedentemente (42,7-10).

La vita di Giobbe dopo la prova è compendiata dal libro sacro in pochissimi versetti (42,11-17). Riebbe i suoi armenti, generò di nuovo sette figli e tre figlie, visse ancora altri centoquarant’anni e “vide i suoi figli e i figli dei suoi figli fino alla quarta generazione e morì vecchio e pieno di giorni” (42,16-17). Alla laconicità di questo testo si cercò molto presto di supplire con amplificazioni e aggiunte, come quelle della versione greca dei Settanta e quelle dell’apocrifo giudeo Testamento di Giobbe, probabile opera del sec. II d C. che conosce perfino i nomi dei figli di Giobbe, riferisce i suoi discorsi e ne descrive poeticamente la morte.

La tradizione cristiana, però, preferì sempre restare fedele alla pura e semplice figura biblica di Giobbe, considerandolo modello di santità e spesso anche tipo del Cristo sofferente. Dai Padri antichi in genere è chiamato “profeta” e da qualcuno anche “martire” per le sue molte sofferenze. Il suo esempio di straordinaria pazienza fu proposto all’imitazione dei fedeli già da San Clemente Romano e poi da San Cipriano da Tertulliano e da tanti altri, sia in Oriente sia in Occidente. Il suo nome compare già nel Martyr. Hieror. e successivamente in tutti gli altri martirologi. La sua immagine, poi, ricorre spesso negli affreschi degli antichi cimiteri cristiani e in numerosissimi sarcofagi d’Italia e della Gallia.

La pellegrina Eteria ci parla di una chiesa eretta in onore di Giobbe nella città di Carneas, ai confini tra l’Arabia e l’Idumea, e sulla sua origine narra il seguente episodio. Al vescovo di quella città, considerata come terra natale di Giobbe, si presentò un giorno un monaco dicendogli di aver ricevuto, in una visione, l’ordine di scavare in un luogo determinato. Il vescovo allora, assecondando il desiderio del monaco, fece iniziare i lavori di scavo e quasi subito si trovò una grande caverna, lunga cento metri, alla fine della quale vi era una lapide con il nome di Giobbe che ne indicava il sepolcro. Sul luogo fu poi iniziata la costruzione della chiesa, che, peraltro, non fu mai portata a termine completamente. Giobbe fu venerato anche in Occidente. Gli furono dedicate delle chiese, come a Venezia, a Bologna e in Belgio, degli ospedali, dei lebbrosari, ecc. Nella liturgia latina è soltanto ricordato nel breve elogio del Martirologio Romano il 10 maggio. Le liturgie orientali invece hanno anche un Ufficio in suo onore, e precisamente il 27 aprile in Abissinia, il 6 maggio nelle Chiese greca e melchita, il 22 maggio a Gerusalemme e il 29 agosto nella Chiesa copta.